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Pirati all’assalto di Bruxelles

In Svezia il Pirat Parteit si prepara a eleggere almeno un candidato. E il movimento si fa strada anche nel vecchio Continente all’insegna del motto «Il 1999 è stato il nostro ‘68».

Magnus Ericsson del Pirate Bureau

Da almeno dieci anni hanno puntato i loro cannoni contro i velieri dei signori dell’intrattenimento che vogliono tenersi stretto il proprio bottino digitale. Dopo le tante battaglie in rete, ora sono pronti a uscire allo scoperto e a piazzare la loro bandiera anche sulla sede del Parlamento europeo.

Ma niente paura: a differenza dei predecessori del ‘700, i pirati svedesi non abbracciano sciabole appuntite né indossano turbanti esotici. Nessun istinto violento, se non la consapevolezza di stare dalla parte giusta della storia. E che non basta più la sola resistenza online, ma bisogna far sentire la propria voce anche nelle stanze del potere. A cominciare dal Parlamento europeo i cui membri siamo chiamati ad eleggere il prossimo 6 e 7 giugno. Con una novità che riflette lo spirito dei tempi: per la prima volta si potrà scegliere anche esponenti del Partito Pirata.

Non aspettate di trovarvi di fronte ai soliti hacker ribelli e a informatici che parlano solo in codice. Nelle fila del Partito Pirata ci sono molti studenti e manager, precari e ingegneri, matematici e scrittori: un blocco sociale abbastanza eterogeneo da far pensare che ormai la pirateria non è più un fenomeno di nicchia. Dopo il processo ai fondatori di Pirate Bay in Svezia (il sito che indicizza i file torrent condivisi online) e l’approvazione della controversa legge Hadopi in Francia (meglio conosciuta come “tre errori e sei disconnesso”), il movimento è riuscito a imporre nel dibattito politico i temi delle nuove frontiere del copyright e dei diritti digitali degli utenti. Soprattutto in Svezia, dove il Pirat Parteit non è nuovo agli appuntamenti elettorali.

«Si era già presentato nel 2006, ma all’epoca non disponeva di alcun budget, si trattava solo una provocazione per ottenere visibilità. Ora invece c’è un humus politico del tutto diverso», spiega a Chips&Salsa Adam Arvidsson, docente di Sociologia alla Statale di Milano. E difatti, secondo un sondaggio di un istituto demoscopico scandinavo, questa volta il Pirat Parteit dovrebbe raccogliere il 5,1% delle preferenze, riuscendo così a eleggere almeno un esponente (il capolista Christian Engström). Il tutto grazie all’apporto del voto giovanile (18-29 anni) che ormai si attesta al di sopra del 20%. E’ ancora più ottimista una recente rilevazione della London School of Economics, secondo cui i pirati potrebbero addirittura sfondare il muro dell’8% e così portare due rappresentanti al Parlamento europeo.

Ma cosa andranno mai a fare i pirati svedesi a Bruxelles, stretti in un’infernale macchina burocratica, dove i giochi si regolano per lo più attraverso i rapporti di forza dei grandi gruppi parlamentari? La piattaforma programmatica del Pirate Parteit si concentra su tre obiettivi: 1) Libertà di copia per utilizzo privato e limitazione a cinque anni del copyright per scopi commerciali; 2) Riforma del sistema dei brevetti (in particolar modo quelli farmaceutici); 3) Tutela dei diritti dei cittadini online (a cominicare dalla privacy).

Al di là dell’effettiva realizzabilità di questo programma, in ballo c’è anche molto altro secondo Magnus Eriksson (nella foto) di Piratbyrån (“il bureau della pirateria”), think tank di attivisti e teorici che nel 2003 ha lanciato Pirate Bay e tre anni dopo ha elaborato l’ideologia del partito: «È importante arrivare a Bruxelles per trasformare l’attuale movimento in un’infrastruttura più concreta. Un membro del Parlamento potrà essere pagato per lavorare a tempo pieno su questi temi, seguire da vicino gli sviluppi delle leggi e lanciare l’allarme quando si prendono scelte sbagliate per gli utenti».

Una sorta di hacker da infiltrare nel cuore del sistema, quindi, utile secondo Adam Arvidsson «anche per mettere a nudo la superficialità con cui l’attuale classe dirigente prende decisioni riguardo a internet. In Svezia, da tempo il Pirat Parteit ha stravolto l’agenda politica. Anche perché lì c’è un bipolarismo equilibrato: chi vuole governare ha bisogno dell’apporto di tutti e sta ben attento a non mettersi contro il voto giovanile. Non è un caso se, alle recenti votazioni sul pacchetto Telecom, Socialisti e Liberali svedesi (a differenza di quelli di altre paesi – NdR) non hanno ceduto alle pressioni delle major e si sono espressi contro».

Resta ancora da vedere se il virus della pirateria riuscirà a espandersi anche nel resto del continente. Per quanto il Partito Pirata ormai abbia affiliazioni in tutti i paesi, ci sono state molte difficoltà a raccogliere le firme per le candidature. Al di là della Svezia, hanno centrato l’obiettivo solo in Germania: «E comunque per noi sarà molto difficile ottenere un seggio, dal momento che abbiamo uno sbarramento del 5%», ci spiega Jens Seipenbusch, giovane ricercatore candidato in Germania.

In molti altri stati si è preferito aggirare il problema presentandosi all’interno di liste di sinistra: è il caso dell’Italia dove Alessandro Bottoni corre nelle fila di Sinistra e Libertà (si veda intervista a fianco). È andata peggio in Francia dove, nonostante la forte mobilitazione contro la legge Hadopi, il Parti Pirate non ce l’ha fatta a candidare un proprio membro: «La nostra legge elettorale è molto severa. Per ora ci accontenteremo di sostenere i Verdi: sono i più vicini alle nostre idee, anche perché hanno “piratato” molti dei nostri slogan. E per noi ovviamente va bene», racconta a il manifesto Peer, un attivista d’Oltralpe.

Ma secondo Magnus Eriksson (che il prossimo 19 giugno sarà a Milano insieme ad Adam Arvidsson per l’Hackmeeting 2009) presto il movimento della pirateria arriverà a contagiare tutti gli altri Paesi. Anche perché lui è convinto che ormai i tempi sono maturi per «andare oltre con la vecchia contrapposizione: politica parlamentare-attivismo. Dobbiamo cambiare le forme della protesta. Non basta solo avanzare richieste o dar vita a un movimento di opinione, si devono pure mettere in campo interventi tecnologici concreti. Anche in politica bisogna procedere con l’hacking&patching (ovvero, rompere il sistema e poi provare a ricostruirlo)».

Insieme ai colleghi del Piratbyrån, Eriksson ama ripetere il motto «Il 1999 è stato il nostro ’68». E cioè, riuscire a eleggere un pirata a Bruxelles non è una conquista epocale. «La nostra battaglia l’abbiamo già vinta dieci anni fa, quando è comparso Napster, il primo sistema di file-sharing, e la banda larga ha iniziato a diffondersi. Da allora molte cose sono cambiate, ma noi abbiamo iniziato a pensare la rete, e le nostre battaglie politiche, con il punto di vista del network globale».

Chissà se un giorno il Partito Pirata riuscirà ad andare oltre l’attuale piattaforma politica soft (concentrata per lo più sul copyright) e articolare un programma più elaborato, riuscendo magari ad aggregare la “maggioranza silenziosa” dei lavoratori della conoscenza che ancora oggi fanno fatica a sentirsi rappresentati da qualcuno. Almeno questo si augura Adam Arvidsson, secondo cui «prima o poi nel programma andrebbero incluse anche questioni più complesse, come ad esempio il welfare nell’epoca della precarietà. Altrimenti dopo aver cambiato il copyright, cosa resterà da fare ai pirati?».

Articolo pubblicato su Chips&Salsa-Il Manifesto del 23 maggio 2009

Nicola Bruno

Fonte:  visionpost

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  1. giugno 7, 2009 alle 5:48 am

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